giovedì 17 marzo 2011

Perchè non mi vanto di essere italiano

"Sull'ereditarietà del merito"

Oggi com’è noto festeggiamo 150 anni dell’unità d’Italia. Persino Google English si è vestito con il tricolore. C’è però in tutto questo clima di festa qualcosa che mi turba. Mi sento un po’ restio a voler festeggiare, e sto cercando di capire da cosa derivi quest’inquietudine.

Il primo pensiero che mi ronza per la testa è se abbia senso parlare di “popolo”, o di “nazione” o di “patria”. Razionalmente, non credo che esista qualche connessione profonda tra persone le quali l’unica cosa che hanno in comune è quella di risiedere su uno stesso pezzo di terra e parlare la stessa lingua. Che cos’ho in comune io con un qualsiasi altro italiano? Abbiamo lo stesso tipo di DNA? Di costituzione fisica? Di connessioni neuronali?

Forse questo tipo di connessione va cercato nella cosiddetta “cultura” di un popolo, ovvero quella serie di informazioni, chiamiamole così, che derivano dall’insegnamento scolastico e familiare, ed in generale dall’ambiente in cui si vive, che si sedimentano poco a poco nella nostra memoria e nella nostra mente e che ci plasmano come un pezzo di pongo. Però anche questo non torna del tutto. E’ possibile concretamente distinguere dei caratteri comuni a tutti gli italiani? Certo, si potrebbe fare l’esempio della cucina. Agli italiani piace la pizza, il caffè, il cappuccino e il tiramisù; ai francesi piace il formaggio, agli spagnoli la paella. Ma esisterà qualche italiano che beve solo il the (io sono tra questi) o che mangia solo profitterol. O qualche francese che mangia la pizza, e qualche spagnolo a cui piace il formaggio. Quindi ciò che chiamiamo “cultura” non sono altro che “le abitudini della maggioranza”, una specie di grandezza statistica che prende in considerazione un gran numero di persone. Ma come in una scatola di gas ad una certa temperatura, nonostante esista un’energia cinetica media delle particelle, esistono molecole che viaggiano con velocità maggiore ed altre con velocità minore, così esistono italiani che, probabilmente, si discostano di molto dall’”italiano medio”. Sono forse quegli italiani, degli “italiani peggiori”?

Ma facciamo un passo avanti. Supponiamo che esistano una serie di valori e pensieri che possono essere riconducibili alla nostra penisola. Supponiamo che esista una “cultura italiana”. La prossima domanda è: la nostra cultura è MIGLIORE delle altre? Perché se festeggiamo l’”italianità” non vuol forse dire che ne siamo fieri? E se ne siamo fieri, vuol dire che è meglio della “cultura media” del mondo. Forse siamo intrinsecamente meglio di uno spagnolo, o di un francese, o di un tedesco, ma anche di un marocchino, un tunisino o un azerbaigiano? E non è forse questo tipo di concezione mentale che infine porta alle discriminazioni razziali ed alle guerre nazionali? Non è forse che unendoci come nazione ci stiamo separando dal resto del mondo?

Infine vorrei fare un’ultima considerazione, che credo sia la più importante di tutte. Francamente, sono stanco di tutte le etichette che la gente tende a mettersi addosso. Sono stanco dei meriti e delle medaglie che ci attacchiamo solo perché facciamo parte di un certo gruppo sociale, o di un certa regione, o di un certa nazione. Io non credo che il MERITO, così come la VERGOGNA, siano trasmissibili come le malattie. Ho forse guadagnato qualche punto per essere nato in Italia? Ho forse fatto qualcosa di buono di cui vantarmi o di cui vergognarmi? Non credo.

Se non è nemmeno garantito che un figlio abbia lo stesso talento del padre, come facciamo ad affermare che l'appartenere ad uno stesso popolo, semmai esista una tale tipo di separazione tra gli uomini, comporti qualsivoglia merito acquisito? Tutta questa storia del patriottismo italiano, come un po' tutti i patriottismi, mi sembra solo una sovrastruttura mentale che ci costruiamo per poterci mettere un gradino sopra gli altri.

A volte sento in televisione stimati intellettuali (stimati non in senso sarcastico, perché alcuni li stimo davvero) dire frasi del tipo: "Ah, noi abbiamo fatto questo, noi abbiamo fatto quello, noi siamo i creativi, noi siamo gli intraprendenti, noi siamo i marinai, noi siamo i poeti, noi, noi, noi..." Ma noi chi? Io personalmente non ho fatto nulla! Non ho combattuto con i mille. Non ho dipinto la monna lisa. Non ho scritto la divina commedia. Non ho costruito pompei. Non ho composto nessun’opera. Non c'ero al tempo dei romani, come al tempo del fascismo.

Quindi di cosa dovrei vantarmi? Oppure, di cosa dovrei vergognarmi?

Per questo, ho deciso di prendere provvedimenti in proposito. Ho preso una decisione che vorrebbe essere una provocazione, in realtà. Io rinuncio all'eredità italiana. Rinuncio al vantarmi di Garibaldi, o Michelangelo, o Leonardo, o Dante o chi per essi. Rinuncio a qualsiasi merito, ma anche a qualsiasi vergogna derivante dalla parte di storia d'italia su cui non ho avuto nessun modo di influire in alcun modo. Rinnego ogni glorificazione ed ogni vituperazione.

E' tanto straordinario chiedere di voler essere giudicato per ciò che si è fatto e non per dove si è nati o che lingua si parli? Credo che il proprio merito bisognerebbe guadagnarselo con i fatti.

Ciò nonostante ho deciso di aprire questo pezzo con un l’immagine di un tricolore. Questo perché non vorrei che si pensasse che non abbia principi, o che non apprezzi l'essere nato in Italia, o che preferirei essere nato altrove. Se ho messo la bandiera italiana è perché essa rappresenta dei principi, quelli della costituzione, che, nonostante siano legati a questo pezzo di terra, vorrebbero essere più universali possibile, e dato che condivido quei principi, e non vorrei che venissero persi, allora scelgo di appoggiarmi a questo simbolo, poiché i simboli servono a veicolare ideali. Ma per me questa bandiera va OLTRE i 301 336 km^2 su cui la gravità ci costringe a pestare i piedi, OLTRE i 150 anni di storia di eroi straordinari di cui, sebbene si possa apprezzare le gesta, non posso prendermi il merito, OLTRE le barriere culturali e mentali che ci creiamo. Per me questa bandiera non rappresenta un passato glorioso, ma un presente ed un futuro migliore.

Buona festa della Repubblica a tutti!

6 commenti:

  1. E' vero che noi non abbiamo nessun merito per quel che fecero i nostri padri, come non portiamo la colpa per le loro azioni non impeccabili. Tuttavia sono legato alla mia nazione, al mio popolo (che esiste, non è un accidente geografico) non perché questo sia migliore degli altri, non perché la nostra patria sia la migliore, semplicemente,come diceva uno di quei nostri antenati, perché è nostra.

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  2. Per questo, ho deciso di prendere provvedimenti in proposito. Ho preso una decisione che vorrebbe essere una provocazione, in realtà. Io rinuncio all'eredità italiana. Rinuncio al vantarmi di Garibaldi, o Michelangelo, o Leonardo, o Dante o chi per essi. Rinuncio a qualsiasi merito, ma anche a qualsiasi vergogna derivante dalla parte di storia d'italia su cui non ho avuto nessun modo di influire in alcun modo. Rinnego ogni glorificazione ed ogni vituperazione.

    Sei ovviamente libero di rinunciare...però che tristezza!

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  3. Rinunciare al merito non credo coincida con non l'apprezzare la cultura o la storia, oppure che non mi emozioni ascoltando qualche canzone in italiano, o guardando qualche quadro, o che non mi piaccia il posto in cui abito. Credo solo che questo tipo di sentimenti, ovviamente individuali, non dovrebbero essere "istituzionalizzati". D'altra parte, però, uno stato tende ad auto-compiacersi, diciamo così, ed è quello il suo scopo. Credo però che esistano prima gli individuo, e poi gli stati, e prima le persone e poi le nazioni. Io mi sento prima cittadino del mondo e poi italiano, e non viceversa.

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  4. Non è un pensiero banale… “Ha ancora senso il patriottismo?”
    Ha ancora senso dirsi –e burocraticamente essere – parte di una nazione? Su cosa si basa oggi l’appartenenza? Che significato ha il nostro essere italiani, il loro essere afghani eccetera?
    In cosa consiste il nostro essere italiani, effettivamente? Nell’abitare entro i confini di uno stato, da cui andiamo e torniamo a nostro piacere per approdare in Francia per lavoro, ad Harvard per finire gli studi, ad Haiti in missione umanitaria, alle Antille per le vacanze e a Sankt Moritz nel weekend… ? Viviamo veramente in Italia, o ne sfruttiamo posti di lavoro e insegnamenti per costruirci un futuro altrove? Questa è solo una provocazione in realtà, il punto è un altro.
    Nel mondo di oggi, in cui abbiamo mille possibilità di connetterci con il pianeta intero, qual è la funzione “sociologica” della nazione? (E scusate se uso la parola a sproposito, ma non me ne venivano altre). “Mi sento cittadino del mondo”, dici: e malgrado tutto è vero, nessun giovane potrà negare quest’affermazione, perché siamo cresciuti in un’epoca in cui andare da Milano a Londra costa poco e ci si mette meno che fare Milano-Messina (!), in cui l’informazione si è evoluta permettendoci di essere virtualmente in altri Paesi oltre l’Italia: oggi siamo in Giappone, l’altro ieri eravamo ad Haiti… I media ci permettono di raggiungere luoghi geograficamente lontani, di interessarci, di avvicinarci. E in un certo senso entrano anch’essi a far parte della nostra esperienza, della nostra storia: ci segnano, lasciano qualcosa, anche solo un ricordo… ma è un ricordo che ci lega a quella terra straniera, in fin dei conti. Tanto quanto quelli che ci legano a questo lago…?
    E poi ora non parliamo solo il dialetto comasco, come i nostri nonni che per forza di cose prima di prendere cattedra in Sicilia dovevano pensarci quattro volte: parliamo l’italiano e il dialetto (pochino), ma anche l’inglese, e magari anche qualche altra lingua. E così tutti i nostri coetanei del mondo: col risultato che potremmo trovarci, io e Yoko (coreana), a Roma o a Hong Kong, e non farebbe differenza: sapremmo dialogare, sapremmo vivere in qualunque altro posto del pianeta (esclusi quelli dove si parla solo dialetto). La lingua madre è una, è quella “che parliamo in casa”: ma al lavoro parliamo inglese, e ogni due settimane facciamo la spola in Germania per commissioni. Ma quando siamo a casa? Viviamo nel mondo, ormai non più solo entro i confini della Lombardia, come due generazioni fa.
    E’ normale, per noi, considerare l’opzione di formarsi all’estero: non è un surplus né un’originalità, ma semplicemente sono caduti i confini che limitavano le possibilità, sia dal punto di vista “comunicativo”, che economico.
    E poi conosciamo meglio i posti dove siamo stati per turismo, piuttosto che quelli che percorriamo quotidianamente: e questo ci fa affezionare ad altre città e altri stati, a volte. Così anche quelli entrano a concorrere alla nostra storia…

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  5. …E un bel giorno, rileggendola, vediamo che il mappamondo delle esperienze che ci hanno segnato è denso di bandierine e di fili connettori, e non resta tutto confinato entro i quattro mari della Penisola. Così abbiamo in noi una bella fetta di Italia, ma anche delle briciole di Francia e di Stati Uniti.
    Cosa voglio dire? Che è vero, siamo multiculturali, ma non nel senso che siamo capaci di costruire una società in cui tutte le culture si possano sentire accolte: nel senso che ognuno di noi è com’è per una serie di combinazioni di culture differenti. Non esiste più il lombardo super lavoratore chiuso e freddino nelle relazioni, contrapposto al romano caciarone e pigro: siamo entrambi tutte e due le cose, ci siamo mescolati grazie agli incontri. E se andiamo a Roma e chi ci accompagna nel tour della capitale è un caciarone, non ci sentiamo comunque fuori luogo. Certi comportamenti e modi di essere che una volta erano dettati dal substrato economico particolare (un po’ marxiana questa frase…) della zona specifica in cui si viveva, ora non hanno più ragion d’essere, perché la realtà in cui viviamo e lavoriamo non è più particolare, bensì globale. Ogni giorno.
    Allora ha senso definirsi italiani o svizzeri? Forse no. Siamo italiani perché ci abitiamo, ma potremmo anche abitare a Montecarlo, e a molti di noi non cambierebbe nulla (il conto in banca)… Appunto: cosa differenzia uno stato dall’altro? Le imposte?
    Forse ha ragione Axel: la Costituzione. Perché certi diritti che per noi (italiani) sono sanciti, altrove non sono assolutamente rispettati: a noi sembra Medioevo, eppure è così.
    Ma se la globalizzazione interessasse anche la legislazione, il senso civico, la sanità e gli istituti provvidenziali, cosa rimarrebbe in effetti a discernere uno stato dall’altro? Si potrebbero infine eliminare tutti i governi e istituire un governo internazionale affiancato a un parlamento, e lasciare le redini degli stati a meri amministratori?

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  6. … Sull’orgoglio mostrato in queste celebrazioni, tuttavia, sono dell’idea che possa non essere deleterio. E’ vero, certo, che non hai dipinto tu la Gioconda e io non ho scritto la Divina Commedia, ma sapere che Leonardo ha trascorso parte della sua vita straordinaria a Milano, percorrendo queste strade, toccando questi palazzi, mi fa innamorare di queste strade e di questi palazzi, della loro storia: perché riconosco che è una grande storia, un patrimonio immenso… e io ci sono seduta sopra! Allora per prima cosa inizio a tenerci, a voler proteggere questa storia, perché la riconosco importante e preziosa; e, secondo, il senso di inadeguatezza nello stare di fronte a un Michelangelo o a un Galileo risveglia un’ispirazione a seguire quelle orme, a non limitarsi alla mediocrità, ma fare del proprio meglio (hai presente “Dei seplocri”, Foscolo?). E non è forse questo ciò di cui ha bisogno l’Italia? Una voglia di proteggerla: dal cemento colato a caso, dalla corruzione che abbruttisce, dall’incuria che abbatte Pompei… più semplicemente, dai graffiti che deturpano le facciate dei palazzi. Perché riconosco la bellezza, e la voglio preservare. Potrei farlo anche a Parigi, ma mi sento più coinvolta nel pensare di avere a cuore l’opera di una persona che ha percorso le stesse strade che ho percorso io, ha mangiato le stesse cose, ha magari pensato le stesse cose e scritte su un quaderno simile, e faceva le vacanze dove le facevo io. Una di quelle persone che, sul mappamondo delle mie esperienze, hanno una casellina…
    E quindi, in fondo, torniamo ancora lì: in cosa possiamo dirci italiani oggi?
    In “La luna e i falò” c’è una frase di Pavese che mi ha sempre colpita:
    “Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti.”
    … o viene via con te, con la tua personalissima e variegata storia, ti segue in capo al mondo… E quando credi d’aver sciolto i tuoi connotati geografici nel mare degli incontri condotti in tutti i continenti, ti ricorda che in fondo qualcosa di diverso, dagli altri, ce l’hai. E non è un limite, ma una ricchezza.

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